Giornale della Musica

Elogio dell'instabilità. Della fluttuazione, colta nel momento in cui una forma muta e si assesta, provvisoriamente, su un’altra periclitante cornice strutturale, anch'essa destinata a sfarinarsi e lasciare solo il ricordo.

Il jazz, di queste successioni d'attimi ha spesso fatto tesoro. In altre parole, è nello stesso concetto di improvvisazione e di interplay che si aprono campi aperti perché ciò che è in un momento non sia più tale, un secondo dopo. Solo che tale aspetto era meno evidente, in altri anni, quando la spessa (ma assai elegante) forma-canzone di Broadway adottata dai jazzisti come trampolino di lancio per le proprie evoluzioni solistiche e di gruppo spesso si rivelava più costrizione che stimolo.

Provò a far saltare il banco il bebop, ma le trentadue misure lì restarono, a dettar legge. Poi arrivò la svolta modale, la nuova libertà di muoversi su e giù per le scale, il ricorso alle miniature di poche note alla Satie prese a modello, le pulsioni arroventate o ultra quiete della New Thing. E figure come Sun Ra, Charles Lloyd, il Tony Scott della Music For Zen Meditation, il Coltrane pacificato e immenso di Expression, il Pharoah Sanders sulla sedia a rotelle ma libero come un gabbiano su correnti ascensionali tiepide in coppia con Floating Points, Nala Sinephro.

Tutta la premessa per arrivare a dire che in questi giorni è uscito un disco programmatico fin dal titolo sulla fluttuazione, il disegno tratteggiato in aria, l'indicibilità di un jazz che è pura sospensione ed assomiglia molto a quanto notato prima, senza esserne copia conforme.

Il disco si intitola Drifting, e il verbo sta a indicare proprio la sensazione di “scivolare, passare da una cosa all'altra” che si ricava all'ascolto di queste magnifiche note. Ne è protagonista Mette Henriette, giovane sassofonista tenore norvegese, con una formazione timbricamente assai interessante e particolare: il pianoforte di Johan Lindvall, il violoncello di Judith Hamann.

Dunque due “voci” strumentali simili a quella umana, e gli ottantotto tasti a incorniciare il tutto e fornire incantati ostinati ritmici.

Henriette era entrata nella squadra dell'etichetta di Manfred Eicher quasi dieci anni fa: unico caso in cui una musicista esordiente iniziò il proprio percorso con un  disco doppio. Mette (nome competo ed assai ostico, per noi: Mette Henriette Martedatter Rølvåg) ha un aspetto elfico dolce e inquietante, è di etnia Sami ugrofinnica e di lei qualcuno ha scritto «Se Wayne Shorter fosse nato nel grande Nord un quarto di secolo fa, questa sarebbe stata la sua musica».

Mettete in conto, per Drifting, quindici brevi “quadri” di rarefatta bellezza, con echi profondi del folklore nordico, dove nulla apparentemente sembra accadere, e invece, sotto le lievi, increspate linee del soffio di Mette – anche quietamente virtuosistico, a volte: basta far caso a trilli e armonici – tutto è in movimento. Come accade dove c’è il grande ghiaccio: sembra tutto immoto, ma è solo abbacinante apparenza.

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